di Gianni Montieri
Quarant’anni
fa Diego Armando Maradona calciava una punizione diventata leggendaria.
Ricordiamo quella giornata con le parole di Gianni Montieri in un estratto
da Il Napoli e la terza stagione, uscito per
66thand2nd, che ringraziamo.
Ci sono domeniche in cui i nostri destini in qualche modo si indirizzano. I nostri destini personali e, ancora di più, i destini generali. La domenica del 3 novembre 1985 piove, in certi novembre pioveva pure a Napoli, ora è tutto cambiato, a novembre perfino al nord sovente fa caldo e c’è il sole. Il 3 novembre del 1985 piove, ho compiuto quattordici anni da qualche mese, il Napoli giocherà a Fuorigrotta contro la Juventus di Platini e i miei mi ritengono troppo piccolo per andare allo stadio senza un adulto che mi accompagni, troppo piccolo per muovermi di casa da Giugliano, in sella al motorino di un altro ragazzo, per fare la quindicina di chilometri che separano casa mia da Fuorigrotta, me da Diego Armando Maradona. Gli stessi genitori acconsentiranno però la settimana dopo a mandarmi a San Siro in trasferta, grazie alle insistenze di un cugino più grande, ad assistere a un altro gol indimenticabile di Maradona, quello all’Inter, dello stop di petto che durò un tempo infinito, o almeno così parve.
La mattina del 3
novembre in piazza – lo ricordo con estrema chiarezza – un amico, più grande di
un paio d’anni, pronuncia la frase per la quale lo avremmo invidiato da quel
momento e per sempre: «Ho trovato il biglietto a cinquantamila lire, ci vado».
Non usa nessuna enfasi nel pronunciare la frase ma negli occhi ha una luce che
gli ho rivisto poche volte in tutti questi anni. In quella tarda mattinata
avviene uno scarto: uno andrà a vedere Napoli-Juventus, gli altri dovranno
limitarsi ad ascoltare la radiocronaca di Enrico Ameri. Siamo già abbastanza
tristi così, senza conoscere né il risultato – il Napoli quel giorno vincerà
per 1-0 – né il modo indimenticabile con cui quella vittoria arriverà, ma così
stanno le cose. Franco, o Salvatore, o Luca, o Vincenzo o chi per loro, in
tarda mattina salirà su un Sì, su un Ciao e si avvierà verso lo stadio, pioggia
o meno, verso la curva, verso Diego Armando Maradona.
Tutti gli altri resteranno in piazza fino all’ora di pranzo, mangeranno i
rigatoni al ragù, ingurgiteranno le polpette in fretta e correranno nelle loro
camerette ad ascoltare la partita alla radio. Con i sentimenti spartiti
equamente tra la malinconia di non essere allo stadio e l’ansia per l’incontro.
Ansia che aumenterà (o diminuirà) durante Tutto il calcio minuto per minuto a
seconda degli interventi, dei toni di voce – che cambiano di azione in azione –
di Enrico Ameri. Io e mio padre non avevamo l’abitudine di ascoltare le partite
alla radio insieme. Lui era un appassionato anomalo e assumeva un distacco
(almeno apparente) dalla partita in sé, accontentandosi a volte di vedere
passare la scritta in sovraimpressione, con l’aggiornamento del risultato,
sullo schermo del televisore. Perciò ci siamo solo io e la radio.
Quel giorno,
ancora prima che la partita cominci e che la mia immaginazione si sovrapponga
ai cambi di voce del radiocronista, divento davvero tifoso del Napoli. Non che
prima non lo fossi – sono abbastanza vecchio da ricordare i pomeriggi in cui mi
fingevo Beppe Savoldi o Antonio Juliano – ma è in quel pomeriggio che avverto
quella malinconia del non esserci, che tornerà tante volte negli anni, e il
senso di appartenenza, di essere uno con altri, si tifa una squadra, ma anche
chi tifa fa parte di una squadra, anche gli appassionati sono una squadra.
L’andamento di quella partita trasformerà, nel corso del pomeriggio, quella
malinconia in gioia, l’ansia in euforia, e renderà quel quattordicenne tifoso
del Napoli, ufficialmente e per sempre.
Quel giorno,
però, cambia anche un’altra cosa in prospettiva. Per la prima volta, nella
storia del Napoli, si apre un orizzonte di possibilità, si ha una prima visione
del futuro sportivo che a posteriori possiamo leggere come un incipit, come
l’episodio zero: da quel pomeriggio è cominciata per la squadra partenopea
un’altra storia che – tra momenti altissimi e altri decisamente deludenti – ci
ha condotti fino a oggi, a oggi che si è chiusa la terza stagione ed è arrivato
il terzo scudetto. Ecco cosa accade quel pomeriggio, ed ecco perché le cose da
quegli istanti cambiano per sempre. Esisterà un nuovo scenario, un palcoscenico
sul quale recitare qualcosa di nuovo.
A Fuorigrotta arriva la Juventus, la squadra più forte del campionato, una delle più forti d’Europa. La squadra di Cabrini, di Scirea, del Trap e naturalmente di Platini, calciatore tra i migliori al mondo, fuoriclasse assoluto. L’uomo che ha regalato alla Francia i Campionati Europei dell’anno precedente, l’uomo che non sbaglia un passaggio, che gioca a testa alta, che mette la palla dove vuole, che quando calcia una punizione dal limite dell’area sembra che calci un rigore. Michel Platini è sempre stato molto ironico, e anche quel pomeriggio si concede una battuta, rispondendo a una domanda del compianto Gian Piero Galeazzi sul Maschio Angioino: «Il Maschio Angioino è Diego» dice con un gran sorriso.
Poi c’è la
partita, che per me si svolge tutta nella voce di Enrico Ameri, ed è molto
combattuta, il primo tempo finirà sullo 0-0, ma le vite molto spesso cambiano
quando già ci si indirizza verso il finale, quando tutti credono che la sfida
possa finire in pareggio, e che in fondo vada bene così. La Juventus è arrivata
a Napoli da prima in classifica, ha vinto le prime otto gare, agli azzurri
pareggiare con la capolista può bastare, e forse sugli spalti, alla radio, lo
pensiamo anche noi, sebbene i padroni di casa abbiano avuto più occasioni per
vincere rispetto agli ospiti. Non la pensa così il destino, non la pensa così
il più forte calciatore del mondo, quello a cui poi intitoleremo lo stadio in
cui sta giocando.
Diego Armando
Maradona quando si metteva in testa una cosa, e se quella cosa si poteva fare
con il piede sinistro (e col senno del 1986, non soltanto con il sinistro e non
soltanto con il piede), la faceva. La partita è ancora sullo 0-0, si arriva
così più o meno al venticinquesimo del secondo tempo. Il Napoli ha spinto molto
di più della Juventus, su un terreno di gioco che con il passare dei minuti
diventa sempre più fangoso, le maglie dei calciatori sono sporche, già allora
sembra una partita d’altri tempi, figuriamoci se riguardiamo le immagini
adesso. Ricordo l’ansia con l’orecchio teso alla radio, la voce di Ameri che fa
palpitare e si inserisce a un certo punto. C’è un fallo nell’area juventina,
l’arbitro Redini non assegna il rigore ma una punizione a due appunto in area
di rigore, tra le proteste dei calciatori del Napoli e l’incredulità del
pubblico sugli spalti. La partita è molto nervosa, alla fine ci saranno sei
ammoniti e due espulsi, Sergio Brio e Salvatore Bagni, sarà ammonito anche
Diego Maradona. È stato il grande Gaetano Scirea a commettere fallo su Daniel
Bertoni, con un intervento non proprio di quelli a cui ci ha abituato durante
tutta la sua carriera.
In ogni caso, l’arbitro Redini da Pisa dice che è solo punizione. Si va avanti
un paio di minuti tra proteste e posizionamento della barriera. Maradona e
Bruscolotti chiedono a gran voce che vengano rispettati i nove metri
regolamentari, cosa che non succede, Redini non ce la fa proprio, tra fango e
distanza, a mettere la barriera al posto giusto, fatto sta che a un certo punto
– come è ampiamente vulgato – Diego Maradona si stufa e dice a Bruscolotti:
«Tanto gli faccio gol comunque». Basta riguardare le immagini per rendersi
conto che la barriera è al massimo a cinque, sei metri, ma non importa, non ha
alcuna importanza, serve solo ad aumentare il coefficiente di difficoltà del
tiro di Maradona.
Siamo dentro
l’area di rigore spostati sulla destra, Eraldo Pecci appoggia il pallone a
Maradona che fa una cosa che a distanza di quasi quarant’anni non abbiamo
ancora capito. Quel tiro è un mistero della fede mai rivelato. Maradona stesso
ha raccontato che Pecci non voleva passargliela, dicendo: «Ma come fai a
calciare da qui?», ma l’argentino lo convince. Del resto, chi poteva dire di no
a Maradona? Pecci la tocca con la suola, due uomini della barriera si taccano e
arrivano a tre metri dalla palla, ma non basta, non è sufficiente, Maradona
uncina, arpiona, non so trovare un altro verbo, e calcia. Il pallonetto in quel
poco spazio è meraviglioso, ricorda un lob fatto da un grande tennista, la
palla s’alza quanto basta per scavalcare la barriera e abbassarsi sotto la
traversa, alle spalle – da quel pomeriggio e per sempre – di Stefano Tacconi.
Da qualunque
angolazione si riguardi quel gol, a velocità normale o al rallentatore, non si
capisce come abbia fatto Maradona a segnare, in che modo abbia accorciato lo
spazio tra lui e il pallone, come abbia fatto a scegliere il giusto tempo, la
sola frazione di secondo rimasta per calciare. Maradona pensava sempre al
futuro e anche quel pomeriggio sapeva da prima che il futuro era un pallone che
sarebbe caduto alle spalle di Tacconi. No, non abbiamo capito e in fondo è
giusto così. Le opere d’arte che ci piacciono non le capiamo sempre fino in
fondo, ma le amiamo lo stesso perché abbiamo sentito qualcosa. Noi non dobbiamo
capire, dobbiamo accontentarci di riguardare quel gol tutte le volte e pensare:
ma come ha fatto?
Quel gol dunque
è l’episodio zero, la palla entra e tutti i tifosi del Napoli – soprattutto i
più giovani, quelli come me, tra i quattordici e i vent’anni, quelli che
cercavano qualche cosa che allargasse il campo del sogno – capiscono che
l’impossibile non esiste, è soltanto una parte del possibile che non a tutti è
dato vedere. Da quel pomeriggio,
i tifosi del Napoli vedono il territorio del consentito che si allarga a
dismisura. Allora possiamo, allora non è detto che le cose belle non possano
accadere, che non possano accadere a noi che stiamo qua inchiodati in questo
strano sud degli anni Ottanta. Quel gol sposta il Napoli in un’altra
dimensione, quel giorno si capisce che uno scudetto prima o dopo arriverà – e
ne arriveranno due, a poca distanza l’uno dall’altro, due esplosioni di gioia,
e non importa se poi seguiranno anni difficili, sofferenze, delusioni e
fallimenti societari. Dentro ogni tifoso del Napoli si è instillato il seme del
possibile, non è mai morto, nemmeno negli anni più cupi.
Se una volta è accaduto può accadere di nuovo e non importa se Maradona non c’è più, altri verranno e altri sono venuti. E se quel gol è, per restare nel campo dell’arte, la Cappella Sistina, i gol di Osimhen alla Roma, per esempio, possono accomodarsi tranquillamente in una delle stanze di Raffaello. C’è voluto tanto, sono passati moltissimi anni, il mistero di quella punizione non lo abbiamo risolto, ma abbiamo saputo aspettare. Il seme ha ritrovato acqua, ossigeno, terreno, ed ecco il germoglio, ed ecco il frutto, ed ecco – se preferite – il fiore. E per mio padre, ovunque si trovi, sta di nuovo passando la scritta in sovraimpressione.
Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagione e Andrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia.
